martedì 12 giugno 2012

Donna-Uomo: i numeri di una parità ancora lontana …

 La  visione “maschio-centrica” del mondo è una realtà che esiste sin dall’antichità.
Da alcuni è considerato un “fardello” imbarazzante, per molti altri (anche donne) è un fatto naturale, addirittura una “sana necessità”.
L’organizzazione patriarcale ha prevalso per secoli. Era,  ed ancora quasi sempre è, l’uomo, e non la donna, a tenere le redini del potere politico, dell’arte, della cultura, delle decisioni militari o di quelle familiari.

Molto –soprattutto per le strenue battaglie delle donne- è ovviamente cambiato,  ma il concetto di parità sembra ancora un miraggio lontano.

Per l’Italia, in questo lento cammino, negli ultimi anni si possono enucleare –semplificando molto- tre principali fasi:
Ø  negli anni settanta l’attenzione è stata prevalentemente rivolta a tutelare la maternità e a reprimere le discriminazioni sul lavoro;
Ø  dalla fine degli anni ottanta al criterio dell’uguaglianza “astratta” è stato progressivamente sostituito quello dell’uguaglianza di opportunità;
Ø  negli ultimi dieci anni è stato formalmente recepito il principio, già acquisito a livello europeo, secondo cui la parità non è un obiettivo in sé, ma va perseguita in tutti i settori di intervento (gender mainstreaming).

Se le leggi sembrano dunque esserci,  rilevanti sono le difficoltà in termini di effettiva applicazione e quindi di efficacia nel contrastare le radici dei divari.

Ma  in economia  quale è la situazione delle donne, del l’“altra metà del cielo” ?

E proprio al ruolo delle donne nell’economia italiana  la Banca d’Italia dedica –per la prima volta- uno  specifico capitolo (l’undicesimo) della sua  Relazione Annuale 2011 .
E la cosa a me è sembrata dirompente, quasi rivoluzionaria !
Ero abituato a trovare nella “Relazione” solo interessanti (o noiosi, dipende dagli interessi di ciascuno di noi) analisi sui sistemi economici e finanziari, internazionali ed interni, e grande è stata la mia sorpresa nel leggere le   “dense” 10 pagine dedicate alle donne. Uno spazio esattamente pari a quello che la Relazione dedica all’analisi dei “mercati finanziari” e quasi il doppio di quello (6 pagine) con cui tratta del  “Sistema finanziario”!
Il debutto di Palazzo Kock  sul tema “economia di genere” non è però  datato 31 maggio 2012 poiché già Banca d’Italia ha organizzato la vigilia dell’8 marzo scorso uno specifico Convegno  sul ruolo delle donne nell’economia  nel quale il neo Governatore Visco  aveva evidenziato la necessità di recuperare i divari rispetto alla partecipazione al mercato del lavoro femminile e di trasformare una grave debolezza in una straordinaria opportunità di crescita per il nostro Paese: se il tasso di occupazione femminile dagli attuali bassi livelli salisse al 60 per cento, l’obiettivo indicato dalle strategie europee per la crescita, il Pil, secondo alcune stime, aumenterebbe di 7 punti percentuali!

Ma cosa dice, in Relazione,  Banca d’Italia ?

Inizia premettendo che, come peraltro già ampiamente noto, nel 2011 il nostro Paese  continua a collocarsi tra i più arretrati nella graduatoria dell’indice Global Gender Gap (al 74° posto su 145 paesi; 21° posto tra quelli dell’Unione europea, anche se tale indicatore –secondo una amica demografa- dovrebbe esser “maneggiato con cura”), penalizzato soprattutto dalla componente “partecipazione e opportunità economiche” (90° posto).
I ritardi, prosegue Via Nazionale, riguardano l’accesso al mercato del lavoro, il livello delle retribuzioni, la carriera, il raggiungimento di posizioni apicali e l’iniziativa imprenditoriale.

E allora, senza soffermarci in considerazioni sociologiche e filosofiche (lo hanno fatto, lo fanno e lo faranno già in molti), riprendendo un  pensiero a me caro, tratto dalla “Metaphisica” di Aristotele, cioè “Il numero misura la realtà e permette di penetrarne il significato” ecco un riepilogo delle informazioni quantitative che ci fornisce il “brain trust” italiano più accreditato in materia economica e finanziaria iniziando da

1.       I divari esistenti nel mercato del lavoro e nelle imprese.
1.1.     In Italia il tasso di occupazione femminile nella fascia di età 15-64 è stato, nel 2011, pari al 46,5%, 21 punti percentuali più basso di quello maschile.
1.2.     Il tasso di occupazione femminile è pari al 55,1% al Centro Nord e solo al 30,8% nel Mezzogiorno
1.3.     Il differenziale di genere è massimo nella fascia di età 35-54 anni ed è inversamente proporzionale al titolo di studio: infatti, è occupato solo il 15,6% delle donne con licenza elementare, il 33%  di quelle con licenza media, il 56,4% tra le diplomate, il 72,3 tra le laureate (contro rispettivamente il 47,1, il 60,1, il 73,9 e l’82,9 per cento tra gli uomini).
1.4.     Nel comparto del lavoro dipendente il divario salariale tra uomini e donne risulta pari in media al 6 %. Se calcolato a parità di caratteristiche individuali e dell’impresa, il divario alla fine del 2010 sale al 13% circa.

Proseguendo quindi dalla constatazione che
2.       le donne italiane sono particolarmente sottorappresentate nelle posizioni di lavoro apicali, infatti:
2.1.      A fronte di una quota di occupate nelle imprese con almeno 50 addetti del 33% , solo il 12%  dei dirigenti è donna.
2.2.      Nei consigli di amministrazione delle circa 28.000 imprese italiane con oltre 10 milioni di euro di fatturato la quota di donne presenti nei CdA si colloca stabilmente intorno al 14 %  nel periodo 2008-2011,
2.3.      Più contenuta, circa il 9%, è la quota di coloro che rivestono posizioni di “alta dirigenza” (amministratore delegato, presidente del consiglio di amministrazione, amministratore unico)
2.4.      Con riferimento ai vertici delle banche,  la quota di donne nei consigli di amministrazione, negli organi di controllo o in posizione di direttore generale è pari al 7% nel 2011 (era solo del 2 per cento nel 1995), ma si concentra negli organi di controllo.  Infatti, la presenza di donne nei consigli di amministrazione delle banche è positivamente correlata con l’utilizzo di sistemi di controllo più rigorosi che accrescono l’efficienza operativa delle banche e ne possono ridurre la rischiosità.
2.5.      Nel sottoinsieme delle società quotate la presenza femminile è cresciuta dal 4,1% nel 2000 al 7,4 nel 2011. Tuttavia, in circa la metà dei casi le donne presenti nei consigli di amministrazione delle società quotate italiane sono tuttavia affiliate al controllante attraverso legami di parentela. Nell’ultimo anno potrebbero avere influito le disposizioni della legge 12 luglio 2011, n. 120, sulle quote di genere che, dall’agosto del 2012, obbliga le società quotate ad avere almeno il 30 per cento di componenti del consiglio di amministrazione del genere meno rappresentato, sia pure in modo graduale (20 per cento nel primo anno) e in via temporanea (per tre mandati).

Quindi, rammentato che
3.        nell’universo delle imprese
3.1.      alla fine del 2011, 1.433.863 sono le imprese femminili, pari al 23,5% di quelle registrate nelle Camere di Commercio (15,3% per le società di capitale),

non si può assolutamente trascurare che, in materia di
4.        Credito
4.1.      le ditte individuali gestite da donne, oltre a dover fornire garanzie più frequentemente, pagano un tasso di interesse più alto sugli scoperti di conto corrente, fino a 30 punti base in più. A tale riguardo Banca d’Italia
4.1.1.  indica che oltre il 70 per cento della differenza di tasso  non dipende dalle caratteristiche delle imprese e nota anche che
4.1.2.   nel periodo 2007-09 le imprese individuali femminili, nonostante abbiano subito una contrazione del credito più marcata, hanno fornito prova di maggiori  capacità di ripagare il debito verso le banche, mostrando indici di deterioramento del credito più contenuti  di quelli delle imprese maschili.

Infine, un ruolo importante lo svolgono anche i
5.       Fattori culturali ove, nel confronto internazionale l’Italia si caratterizza per la diffusione di pregiudizi valoriali non favorevoli alla presenza femminile nell’economia e nella società.
Ad esempio, la ripartizione dei carichi domestici e di cura è in Italia particolarmente squilibrata. Mentre in molte altre economie avanzate uomini e donne lavorano lo stesso numero complessivo di ore – i primi lavorano più per il mercato, le seconde più in casa – in Italia gli uomini lavorano molto meno, perché le donne dedicano più ore al lavoro domestico, anche rispetto alle altre europee.  Infatti
5.1.    Banca d’Italia ricorda che nel 2008-09  le donne svolgevano ben il 76 per cento del lavoro familiare, solo due punti  percentuali in meno rispetto al 2002-03 e nove in meno rispetto al 1989.
5.2.     Stesse informazioni vengono  dal “rapporto Istat sulla coesione sociale” il quale  conferma che  nel biennio 2008-2009, il tempo femminile dedicato al lavoro familiare in generale è stato in media di 4 ore e 40 nelle donne che lavorano in una coppia senza figli, e di 5 ore e 10 in coppia con figli, mentre nelle stesse coppie per gli uomini il tempo dedicato al lavoro familiare si riduceva rispettivamente a 1 ora e 54 minuti e a 2 ore e 4 minuti. 
5.3.     Ulteriore conferma viene da  Ichino e Alesina  i quali, anche sulla base di propri sondaggi, affermano fra l’altro che “Le donne lavorano in casa il doppio degli uomini, anche includendo lavori casalinghi tipicamente maschili”.

*.*.*

Su questa dimostrata prevalenza dell’uomo sulla donna, chiudo  (forse provocando qualcuno) con il pensiero della Chiesa Cattolica. Con l’enciclica Mulieris dignitatem Giovanni Paolo II chiarisce che il dominio dell'uomo sulla donna è frutto del peccato, poiché uomo e donna sono immagine di Dio, come singoli e insieme, nell'uguaglianza e nella differenza, e con toni profetici afferma che i nostri giorni attendono la manifestazione del genio della donna.

Donne, quindi ? “Aspetta e spera” o “Lotta dura senza paura” ?

*.*.*

Post scriptum: Non rispondo all’ultimo quesito ma mi sembrava  giusto illustrare questo post con il noto iconico manifesto “We Can Do It!” associato a Rosie the Riveter e al movimento delle donne salariate che lavoravano durante la II Guerra Mondiale.  Ma non ci sono ancora riuscito.
Io qui lo intendevo come simbolo della crescente legittimazione delle donne e come segno dei grandi cambiamenti di genere che ci sono stati e che ci dovranno essere negli anni a venire.

venerdì 1 giugno 2012

Disoccupazione zero? Possibile se …

Disoccupazione zero possibile se agli attuali occupati fosse diminuito di 36 minuti l’orario di lavoro giornaliero !
Quella che espongo  è solo una idea (per di più non originale), al momento essenzialmente teorica anche se  basata su presupposti quantitativi certi.
Per me è anche una buona idea, perché potrebbe cambiare radicalmente la situazione occupazionale in Italia.
Presupposti essenziali  per renderla operativa sono  una presa di coscienza collettiva, una convergenza virtuosa  di tutte  le forze sindacali, imprenditoriali e politiche (o di una loro importante maggioranza).
E l’accordo di tutti  (o quasi)   i lavoratori.   
Presupposti, si dirà,  altamente improbabili nell’Italia di oggi e quindi l’idea è quasi certamente destinata a restare pura utopia.
Ma non dispero,  parchè la teoria  ci  dice addirittura che gli eventi con probabilità uguale a zero non sono impossibili.

  1. Occupati, disoccupati e NEET
Lo spunto iniziale per riflettere viene dalle cifre che seguono, peraltro ampiamente note, riferite alla situazione italiana di fine marzo 2012:
posizione professionale
numero
% su totale
occupati
22.947.000
90,15
disoccupati
2.506.000
9,85
occupati + disoccupati
25.453.000
100,00

 A ciò si aggiunge l’ulteriore informazione sulla disoccupazione giovanile che, sempre a fine marzo 2012, è fra le più alte di sempre: secondo dati OCSE  il 35,9 % dei giovani che vorrebbero un lavoro non riesce a trovarlo.
Inoltre è necessario considerare che sono  oltre 2 milioni e 200 mila i giovani italiani fra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano, cioè i cosiddetti "NEET",  l'acronimo che riassume la definizione inglese: Not in Education, Employment or Training (cfr, fra gli altri, Ilvo Diamanti).

  1. Ormai preclusa l’espansione del lavoro  
Il  secondo stimolo è mutuabile  dalle analisi compiute dagli specialisti: la maggior parte degli studiosi concorda che le società economicamente mature hanno raggiunto uno stadio al di la del quale la possibilità di attuare uno sviluppo che passi attraverso una significativa espansione del lavoro è definitivamente preclusa. (Vedi, fra gli altri, pag 23 di E. Zucchetti “La disoccupazione”)

  1. Gli italiani lavorano più ore di tutti
La  terza  considerazione ce la offre l’Ufficio statistico del Dipartimento del lavoro americano. Secondo i suoi dati  gli italiani, nel 2010, hanno lavorato più di statunitensi, inglesi, spagnoli, francesi e ben 359 ore in più dei tedeschi (il 25% in più). I numeri sono stati  diffusi da The Big Picture, uno dei blog economici più seguiti al mondo animato dall’economista Barry Ritholtz
.
Dall’informazione USA (i cui dati sono riportati  anche  qui) è possibile trarre questa graduatoria:
Paese
Media ore annue lavorate nel 2010
Media ore settimanali (per ipotesi 48 settimane annue di lavoro)
Italia
1.778
37,0
Usa
1.741
36,3
Regno Unito
1.647
34,3
Spagna
1.590
33,1
Francia
1.439
30,0
Germania
1.419
29,6

Si tratta ovviamente di dati quantitativi che non considerano la produttività ma soltanto il monte ore complessivo diviso per il numero totale del personale impiegato.

  1. Keynes: ridurre orario o scontro disoccupati vs. occupati
L’illuminazione finale e lo spunto per sviluppare l’idea ce la offre un grande economista del ‘900:  nel 1930 –nel pieno della più importante crisi economica  del XX secolo, la “grande depressione” che sconvolse l’economia mondiale-  J. M. Keynes nel saggio “Prospettive per i nostri nipoti” fra l’altro così scriveva : “… se entro due generazioni non verrà ridotto l’orario di lavoro a tre ore o non verrà accorciato l’orario settimanale a quindici ore, ci sarà uno scontro epocale tra disoccupati giovani e occupati adulti”.
Parole, queste ultime, profetiche e oggi -a parer mio- più che mai attuali e valide.

  1. Il rilancio di un motto
Dunque, in sostanza: lavorare (e, evidentemente, guadagnare) un pò meno, ma lavorare tutti !
Un ritorno, quindi, del motto lanciato dal filosofo Andrè Gorz che  era diventato uno slogan di moda dei movimenti post sessantottini e che di recente è stato ripreso da più parti : solo per citarne alcuni, dal sociologo De Masi,  da un autorevole think-tank di economisti britannici, la New Economics Foundation (NEF), che ha organizzato un seminario sul tema in collaborazione con un Centro di Analisi  della London School of Economics e persino  dal Blog di Beppe Grillo.
Ma è possibile ? Certamente si e cercherò qui di dimostrarlo.

  1. Le concrete possibilità di applicazione
Se si lavora sulle cifre sin qui fornite si può subito sviluppare il seguente ragionamento: se in Italia sono attivi 22 milioni e 947 mila persone che in un anno lavorano, in media, 1.778 ore, cioè –come abbiamo calcolato- poco più di 37 ore ogni settimana (e questo, mi sembra, che sostanzialmente torna) ciò anche significa che in totale in Italia in un anno si lavorano 40.799.766.000  ore. 

E, attenzione, se questo monte ore totale lo distribuissimo non solo sugli attuali occupati ma anche sugli attuali disoccupati, cioè su un totale di 25.453.000 persone, otterremmo che l’intera forza lavoro (occupati più disoccupati) potrebbe/dovrebbe lavorare 33,4 ore a settimana, cioè circa 3 ore e mezzo in meno rispetto ad oggi.
Si potrebbe cioè  passare da questa situazione, l’attuale, con disoccupati:
posizione professionale
numero
Ore lavorate
Per settimana
Per anno
Da tutti, In totale
occupati
22.947.000
37,04
1.778,0
40.799.766.000,00
disoccupati
2.506.000
0
0
0
occupati + disoccupati
25.453.000


40.799.766.000,00

a questa, la possibile, di piena occupazione:
posizione professionale
numero
Ore lavorate
Per settimana
Per anno
Da tutti, In totale
occupati
22.947.000
        33,39
    1.602,9
   36.782.785.149,18
ex disoccupati
2.506.000
        33,39
    1.602,9
      4.016.980.850,82
occupati + ex disoccupati
25.453.000


40.799.766.000,00

Il banale esercizio numerico dimostra quindi che si potrebbe azzerare la disoccupazione con la riduzione per tutti  gli attuali occupati dell’orario di lavoro di meno del 10%, esattamente una diminuzione del 9,85%, cioè di 3,6 ore settimanali, poco più di 36 minuti al giorno se si lavora su 6 giorni e poco  più di 43 minuti al giorno se si lavora su 5 giorni. 
E, attenzione, in questa simulazione dopo la riduzione le ore di lavoro medie settimanali di ciascun italiano (33,4) sarebbero (cfr. sopra la  2^ tabella) solo di poco inferiori a quelle del Regno Unito e ancora superiori  a quelle di Spagna, Francia e Germania.
Ma l’Italia avrebbe IMPIEGATO TUTTI GLI ATTUALI DISOCCUPATI e saremmo in situazione di piena occupazione !

Ovviamente, la riduzione di orario e l’ingresso nel ciclo produttivo di tutti gli ex disoccupati  dovrebbe avvenire a parità –per il “sistema Italia” - di costo totale del lavoro.
Quindi, si dirà, alla riduzione di ore lavorate si dovrebbe agganciare la riduzione di eguale percentuale (-9,8%) della retribuzione  di tutti gli attuali occupati.
Ma potrebbe non essere esattamente così. Infatti, coeteris paribus, c’è da tener presente che:
a)       Il costo dei 2,5 milioni di nuovi  occupati, che verrebbero ovviamente inquadrati a categorie e gradi contrattuali iniziali, sarebbe certamente inferiore a quello dell’ ipotetico taglio (-9,8%) del monte salari/stipendi degli attuali occupati.
b)        Per gli attuali occupati il netto in busta paga diminuirebbe di una % inferiore a quella del lordo, tassato con l’aliquota marginale più alta e, in conseguenza, la tassazione media comunque diminuirebbe,.
c)       La massa retributiva che si sposterebbe dagli attuali occupati agli ex disoccupati genererebbe, con elevata probabilità,  un aumento dei consumi (e quindi anche delle imposte indirette), attivando un circuito virtuoso di crescita e sviluppo.
d)       La produttività oraria del lavoro aumenterebbe almeno per due motivi. Innanzitutto perché il lavoro orario dei nuovi assunti (ex disoccupati) costa meno e quindi, anche a parità di produzione fisica con i già occupati, il loro “valore aggiunto” sarebbe superiore. Inoltre, se è vera la teoria della produttività decrescente in funzione del tempo di lavoro giornaliero, la diminuzione dell’orario agli attuali occupati toglierebbe un periodo a produttività marginale più basso e quindi la produttività  media aumenterebbe.
E si potrebbe continuare …
 Attuare l’idea esposta sarebbe una rivoluzione pacifica di portata storica.   
Ma  sopire gli egoismi individuali è ancora possibile ? Il tempo sembra quello giusto. Del resto, se non ora, quando ?