La visione “maschio-centrica” del mondo è una realtà che esiste sin dall’antichità.
Da alcuni è considerato un “fardello” imbarazzante, per molti altri (anche donne) è un fatto naturale, addirittura una “sana necessità”.
L’organizzazione patriarcale ha prevalso per secoli. Era, ed ancora quasi sempre è, l’uomo, e non la donna, a tenere le redini del potere politico, dell’arte, della cultura, delle decisioni militari o di quelle familiari.
Molto –soprattutto per le strenue battaglie delle donne- è ovviamente cambiato, ma il concetto di parità sembra ancora un miraggio lontano.
Per l’Italia, in questo lento cammino, negli ultimi anni si possono enucleare –semplificando molto- tre principali fasi:
Ø negli anni settanta l’attenzione è stata prevalentemente rivolta a tutelare la maternità e a reprimere le discriminazioni sul lavoro;
Ø dalla fine degli anni ottanta al criterio dell’uguaglianza “astratta” è stato progressivamente sostituito quello dell’uguaglianza di opportunità;
Ø negli ultimi dieci anni è stato formalmente recepito il principio, già acquisito a livello europeo, secondo cui la parità non è un obiettivo in sé, ma va perseguita in tutti i settori di intervento (gender mainstreaming).
Se le leggi sembrano dunque esserci, rilevanti sono le difficoltà in termini di effettiva applicazione e quindi di efficacia nel contrastare le radici dei divari.
Ma in economia quale è la situazione delle donne, del l’“altra metà del cielo” ?
E proprio al ruolo delle donne nell’economia italiana la Banca d’Italia dedica –per la prima volta- uno specifico capitolo (l’undicesimo) della sua Relazione Annuale 2011 .
E la cosa a me è sembrata dirompente, quasi rivoluzionaria !
Ero abituato a trovare nella “Relazione” solo interessanti (o noiosi, dipende dagli interessi di ciascuno di noi) analisi sui sistemi economici e finanziari, internazionali ed interni, e grande è stata la mia sorpresa nel leggere le “dense” 10 pagine dedicate alle donne. Uno spazio esattamente pari a quello che la Relazione dedica all’analisi dei “mercati finanziari” e quasi il doppio di quello (6 pagine) con cui tratta del “Sistema finanziario”!
Il debutto di Palazzo Kock sul tema “economia di genere” non è però datato 31 maggio 2012 poiché già Banca d’Italia ha organizzato la vigilia dell’8 marzo scorso uno specifico Convegno sul ruolo delle donne nell’economia nel quale il neo Governatore Visco aveva evidenziato la necessità di recuperare i divari rispetto alla partecipazione al mercato del lavoro femminile e di trasformare una grave debolezza in una straordinaria opportunità di crescita per il nostro Paese: se il tasso di occupazione femminile dagli attuali bassi livelli salisse al 60 per cento, l’obiettivo indicato dalle strategie europee per la crescita, il Pil, secondo alcune stime, aumenterebbe di 7 punti percentuali!
Ma cosa dice, in Relazione, Banca d’Italia ?
Inizia premettendo che, come peraltro già ampiamente noto, nel 2011 il nostro Paese continua a collocarsi tra i più arretrati nella graduatoria dell’indice Global Gender Gap (al 74° posto su 145 paesi; 21° posto tra quelli dell’Unione europea, anche se tale indicatore –secondo una amica demografa- dovrebbe esser “maneggiato con cura”), penalizzato soprattutto dalla componente “partecipazione e opportunità economiche” (90° posto).
I ritardi, prosegue Via Nazionale, riguardano l’accesso al mercato del lavoro, il livello delle retribuzioni, la carriera, il raggiungimento di posizioni apicali e l’iniziativa imprenditoriale.
E allora, senza soffermarci in considerazioni sociologiche e filosofiche (lo hanno fatto, lo fanno e lo faranno già in molti), riprendendo un pensiero a me caro, tratto dalla “Metaphisica” di Aristotele, cioè “Il numero misura la realtà e permette di penetrarne il significato” ecco un riepilogo delle informazioni quantitative che ci fornisce il “brain trust” italiano più accreditato in materia economica e finanziaria iniziando da
1. I divari esistenti nel mercato del lavoro e nelle imprese.
1.1. In Italia il tasso di occupazione femminile nella fascia di età 15-64 è stato, nel 2011, pari al 46,5%, 21 punti percentuali più basso di quello maschile.
1.2. Il tasso di occupazione femminile è pari al 55,1% al Centro Nord e solo al 30,8% nel Mezzogiorno
1.3. Il differenziale di genere è massimo nella fascia di età 35-54 anni ed è inversamente proporzionale al titolo di studio: infatti, è occupato solo il 15,6% delle donne con licenza elementare, il 33% di quelle con licenza media, il 56,4% tra le diplomate, il 72,3 tra le laureate (contro rispettivamente il 47,1, il 60,1, il 73,9 e l’82,9 per cento tra gli uomini).
1.4. Nel comparto del lavoro dipendente il divario salariale tra uomini e donne risulta pari in media al 6 %. Se calcolato a parità di caratteristiche individuali e dell’impresa, il divario alla fine del 2010 sale al 13% circa.
Proseguendo quindi dalla constatazione che
2. le donne italiane sono particolarmente sottorappresentate nelle posizioni di lavoro apicali, infatti:
2.1. A fronte di una quota di occupate nelle imprese con almeno 50 addetti del 33% , solo il 12% dei dirigenti è donna.
2.2. Nei consigli di amministrazione delle circa 28.000 imprese italiane con oltre 10 milioni di euro di fatturato la quota di donne presenti nei CdA si colloca stabilmente intorno al 14 % nel periodo 2008-2011,
2.3. Più contenuta, circa il 9%, è la quota di coloro che rivestono posizioni di “alta dirigenza” (amministratore delegato, presidente del consiglio di amministrazione, amministratore unico)
2.4. Con riferimento ai vertici delle banche, la quota di donne nei consigli di amministrazione, negli organi di controllo o in posizione di direttore generale è pari al 7% nel 2011 (era solo del 2 per cento nel 1995), ma si concentra negli organi di controllo. Infatti, la presenza di donne nei consigli di amministrazione delle banche è positivamente correlata con l’utilizzo di sistemi di controllo più rigorosi che accrescono l’efficienza operativa delle banche e ne possono ridurre la rischiosità.
2.5. Nel sottoinsieme delle società quotate la presenza femminile è cresciuta dal 4,1% nel 2000 al 7,4 nel 2011. Tuttavia, in circa la metà dei casi le donne presenti nei consigli di amministrazione delle società quotate italiane sono tuttavia affiliate al controllante attraverso legami di parentela. Nell’ultimo anno potrebbero avere influito le disposizioni della legge 12 luglio 2011, n. 120, sulle quote di genere che, dall’agosto del 2012, obbliga le società quotate ad avere almeno il 30 per cento di componenti del consiglio di amministrazione del genere meno rappresentato, sia pure in modo graduale (20 per cento nel primo anno) e in via temporanea (per tre mandati).
Quindi, rammentato che
3. nell’universo delle imprese
3.1. alla fine del 2011, 1.433.863 sono le imprese femminili, pari al 23,5% di quelle registrate nelle Camere di Commercio (15,3% per le società di capitale),
non si può assolutamente trascurare che, in materia di
4. Credito
4.1. le ditte individuali gestite da donne, oltre a dover fornire garanzie più frequentemente, pagano un tasso di interesse più alto sugli scoperti di conto corrente, fino a 30 punti base in più. A tale riguardo Banca d’Italia
4.1.1. indica che oltre il 70 per cento della differenza di tasso non dipende dalle caratteristiche delle imprese e nota anche che
4.1.2. nel periodo 2007-09 le imprese individuali femminili, nonostante abbiano subito una contrazione del credito più marcata, hanno fornito prova di maggiori capacità di ripagare il debito verso le banche, mostrando indici di deterioramento del credito più contenuti di quelli delle imprese maschili.
Infine, un ruolo importante lo svolgono anche i
5. Fattori culturali ove, nel confronto internazionale l’Italia si caratterizza per la diffusione di pregiudizi valoriali non favorevoli alla presenza femminile nell’economia e nella società.
Ad esempio, la ripartizione dei carichi domestici e di cura è in Italia particolarmente squilibrata. Mentre in molte altre economie avanzate uomini e donne lavorano lo stesso numero complessivo di ore – i primi lavorano più per il mercato, le seconde più in casa – in Italia gli uomini lavorano molto meno, perché le donne dedicano più ore al lavoro domestico, anche rispetto alle altre europee. Infatti
5.1. Banca d’Italia ricorda che nel 2008-09 le donne svolgevano ben il 76 per cento del lavoro familiare, solo due punti percentuali in meno rispetto al 2002-03 e nove in meno rispetto al 1989.
5.2. Stesse informazioni vengono dal “rapporto Istat sulla coesione sociale” il quale conferma che nel biennio 2008-2009, il tempo femminile dedicato al lavoro familiare in generale è stato in media di 4 ore e 40 nelle donne che lavorano in una coppia senza figli, e di 5 ore e 10 in coppia con figli, mentre nelle stesse coppie per gli uomini il tempo dedicato al lavoro familiare si riduceva rispettivamente a 1 ora e 54 minuti e a 2 ore e 4 minuti.
5.3. Ulteriore conferma viene da Ichino e Alesina i quali, anche sulla base di propri sondaggi, affermano fra l’altro che “Le donne lavorano in casa il doppio degli uomini, anche includendo lavori casalinghi tipicamente maschili”.
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Su questa dimostrata prevalenza dell’uomo sulla donna, chiudo (forse provocando qualcuno) con il pensiero della Chiesa Cattolica. Con l’enciclica Mulieris dignitatem Giovanni Paolo II chiarisce che il dominio dell'uomo sulla donna è frutto del peccato, poiché uomo e donna sono immagine di Dio, come singoli e insieme, nell'uguaglianza e nella differenza, e con toni profetici afferma che i nostri giorni attendono la manifestazione del genio della donna.
Donne, quindi ? “Aspetta e spera” o “Lotta dura senza paura” ?
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Post scriptum: Non rispondo all’ultimo quesito ma mi sembrava giusto illustrare questo post con il noto iconico manifesto “We Can Do It!” associato a Rosie the Riveter e al movimento delle donne salariate che lavoravano durante la II Guerra Mondiale. Ma non ci sono ancora riuscito.
Io qui lo intendevo come simbolo della crescente legittimazione delle donne e come segno dei grandi cambiamenti di genere che ci sono stati e che ci dovranno essere negli anni a venire.